Il '900 E Le Botteghe Artigiane
Oltre alle lavorazioni importanti per i signori, gli scalpellini realizzavano oggetti d'uso quotidiano per i contadini come l'albio (mangiatoia e abbeveratoio per maiali e galline, di pietra appena sgrossata), la vera da pozzo, il mortaio, il secchiaio, la pila (il classico contenitore per pestare l'orzo), il porta caldiero (il piatto per far scolare la pentola della polenta).
Nel Novecento le botteghe dei lapicidi sono per lo più aziende familiari. L’escavazione e lavorazione della pietra non avvengono tutto l'anno, ma solo durante l'inverno, grazie ad una maggiore disponibilità di manodopera, solo parzialmente impiegata nell'attività boschiva ed agricola. Nel 1930 sono presentati alcuni oggetti in pietra alla IV Esposizione internazionale d'Arte Decorativa ed Industriale Moderna, tenutasi alla Villa Reale di Monza e alla quale partecipano le ditte Thiene Giulio di Longare, Fratelli Grassi da Nanto e Vittorio, Guelfi da Vicenza: ciò testimonia che queste ditte sono già in grado di offrire al mercato nazionale prodotti validi e d'avanguardia, in un materiale povero, ma arricchito da una secolare tradizione, che viene in queste aziende perpetuata e, giorno per giorno, rinnovata. Le tecniche d'escavazione e lavorazione restano però rudimentali, le stesse in sostanza che si usavano cinque secoli prima.
L’estrazione avviene in cave in galleria: il lavoro comincia facendo un'apertura quadrata di quattro metri di lato, in una zona dove affiora la roccia, il cosiddetto sengio; si procede in profondità togliendo il materiale superficiale, si lascia il primo strato di roccia, di circa due metri d'altezza, che funge da volta portante la copertura vegetale del monte sovrastante.
Si procede quindi isolando i blocchi dalla roccia mediante l'apertura di canaletti larghi dai dodici ai quindici centimetri, sufficienti per il passaggio delle mani del cavatore. Questi canaletti sono realizzati con il picchetto, una sorta di piccone di ferro a due punte, lungo circa 25 cm. e pesante un chilo, munito di un manico di legno lungo un metro. Il lavoro è molto faticoso: si svolge in piedi, in ginocchio o coricati su un fianco sul banco di cava, illuminato da lumini ad olio.
Si procede ad una velocità di circa un metro di canale al giorno. Il fronte di cava può essere alto anche diversi metri, perciò è necessario creare un sistema di ponteggi provvisori per raggiungere il livello necessario, costruiti infiggendo nella roccia dei travetti sui quali si appoggiano delle assi.
Realizzati i canali, si libera il primo blocco in alto, chiamato tirada, dall'ultimo Iato che lo unisce alla parete: può succedere che improvvisamente il blocco si stacchi dalla montagna, investendo lo sfortunato cavatore. Per questo motivo nel passato si abbandonavano le cave che presentavano un materiale con troppe stratificazioni e fratture, ad ogni modo non si sarebbe estratto un materiale adatto alle costruzioni.
Per staccare il blocco dal banco si battono con il maglio dei cunei di ferro inseriti nella fessura fatta col picchetto e in una buona cava, in un mese, una coppia di cavatori riesce a cavare circa 10 mc, circa cinque blocchi delle dimensioni di 2,5x1,0x0,8 m.
Occasionalmente, per dei lavori speciali, si possono cavare blocchi maggiori, dell'ordine dei quattro metri di lunghezza, ma questo comporta problemi notevoli di organizzazione e trasporto. Lo spazio che viene a crearsi nelle cave in galleria, infine si rende simile all'interno di una basilica romanica, con navate da circa 10 m di larghezza ed altrettanto di altezza, con intercalate colonne quadrangolari di 5 m di Iato; essere cavatore ha i suoi pregi: implica un lavoro certo e ben retribuito, al riparo dalla pioggia e dal gelo.
In cava, infatti, c'è una temperatura costante di 14° sia d'esta te che d'inverno. Una volta cavato, il blocco è fatto scivolare su dei rulli di legno fino al piazzale della cava, dove può subire un'ulteriore sbozzatura, per evitare il trasporto ai laboratori di pesi inutili. Può awenire anche una prima lavorazione del materiale: all'imbocco della cava, infatti, c'è una temperatura mite e sufficiente luce per accogliere agevolmente gli scalpellini. Dalla cava i blocchi sono trasportati ai laboratori tramite un carro a quattro ruote trainato da buoi.
Per i blocchi più pesanti occorre aggiogare anche sedici buoi. Per alcune cave, situate in posizioni particolarmente malagevoli, come la cava del Gazzo, tutt'oggi in attività e sita nel comune di Grancona, si rendeva necessaria la lizzatura.
Il blocco è fatto scendere dolcemente dal monte grazie ad argano agganciato alla parete della cava. Superato un dislivello di quasi ottanta metri si giunge alla fine del percorso ad un piana le di carico. I laboratori possono essere situati anche a qualche chilometro di distanza. Così, a ben guardare, oggi la cava è un libro di storia aperto.
Infatti, la memoria di questo modo di cavare, giunto a noi da racconti di priari (chi lavora la pietra) di cinquant'anni fa, è riconoscibile sulla superficie interna delle cave stesse: le incisioni nella roccia dovute al picchettare, ed i buchi dovuti ai ponteggi, sono testimonianza del movimento e del lavoro continuo e indefesso dei cavatori, che tanto amarono e odiarono, nei casi d'incidenti, questi monti.
Appena il blocco arriva alla bottega artigiana è tagliato con una sega, formata da un telaio di legno portante una lama di acciaio. Questo lavoro è fatto in coppia e può durare anche giorni. Si capovolge spesso il blocco, ponendo la dimensione maggiore in verticale, mediante l'ausilio della binda, di puntelli e leve di legno.
La lavorazione della pietra awiene con la mazzetta, la subbia e gli scalpelli in genere, la martellina e le raspe. La mazzetta serve per la sgrossatura dei masselli, per portarli da parallelepipedi a forme più vicine all'oggetto finale; la subbia e gli scalpelli servono per la sbozzatura d'elementi d'ornato come volute, pigne, elementi scultorei in genere; ma l'attrezzo più usato è la martellina, un martello con le punte gradinate, con la quale si porta l'oggetto ad un livello di finitura quasi definitivo, caratterizzato dalla superficie rigata, ancor visibile nei manufatti dell'epoca.
La finitura degli elementi scultorei awiene mediante l'impiego di raspe di diverse grossezze. Un altro strumento è la rasaro/a, una sorta di pialla da pietra, da usare come la raspa, ma per le superfici piane. Occasionai mente, per levigare la pietra e renderla più pulita possibile, si usa la pomice, sfregandola diretta mente sulla pietra.
Il lavoro dello scalpellino e del priaro in genere è pesante, ma non troppo se confrontato con il lavoro dei campi. L'orgoglio di produrre dei pezzi d'architettura che permangono nei secoli giustifica la fatica. Il mestiere non s'impara a scuola: la formazione degli apprendisti avviene sul campo, mediante l'osservazione diretta dei maestri, come avviene ancora oggi.
Fonte: Francesco Grassi, "Colli Berici" Ed.Papergraph, 2000