Il Ciclo Della Vita
e Dell'Anno
Nell'ambiente rurale la donna che jera drìo comprare (che era in gravidanza) continuava a lavorare sul campo fino all''ultimo momento. Dei suo stato si parlava sottovoce, solo tra donne, e per evitare "voglie" al nascituro, le era offerto un bicchiere di vino contro le mace rosse da vin, una ciliegia, una fragola, un fico. Il bambino era battezzato in cao aì oto dì (entro otto giorni), nel timore che morisse senza battesimo: gli era dato il nome di un nonno o di un familiare scomparso prematuramente.
L'educazione del bambino era affidata alla madre. I pochi giocattoli erano confezionati in famiglia: una bambola di pezza, una palla di stoffa riempita di segatura o trucioli, un carrettino di legno. In caso di malattia, si ricorreva ai rimedi tradizionali: per il mai di pancia, si stendeva sul ventre a contatto con la pelle un foglio di carta da zucchero unto con il burro; contro i vermi intestinali, molto frequenti, si metteva attorno al collo una collana de spiqhi di aglio. La medicina universale per i più grandi era l'ojo de rìzhíno (olio di ricino). Presto s''incominciava a lavorare: al ritorno da scuola si portavano al pascolo la mucca, le pecore, le capre, e nei periodi di maggiore attività agricola si doveva dare una mano nei campi.
Con el cortelèto (la roncolina) sottratto agli adulti, i più grandicelli si costruivano fionde, fischietti di legno, stoparòi (cannoncini che sparavano palline di stoppa o cànevo), s-ciopèì (piccoli fucili), archìti (trappole ad arco per uccelli). Le ragazze imitavano i lavori femminili oppure giocavano a scalòto o scalòn (griglia disegnata sul terreno, sulla quale si saltava), a palla, a ossetti (cinque ossi di pesca o cinque sassolini). I maschi più grandi giocavano a saltamuléta o a mussa (i giocatori di una squadra saltavano sul dorso dei giocatori dell'altra), a scaja con una pietra piatta, a baléte (biglie di terracotta colorate).
Finito il tempo della scuola, finiva anche il tempo dei giochi: i maschi seguivano il padre nei campi, le femmine aiutavano la madre. Quando arrivava la chiamata per il servizio di leva, i coscritti facevano festa: giravano allegri su un carro addobbato di frasche, di edera e di fiaschi di vino, mentre i muri del paese erano ricoperti da scritte inneggianti alla "classe di ferro" e all''amore. Al ritorno dal servizio militare spesso prestato con orgoglio nel corpo degli alpini il giovane, ormai maturo, cercava la morosa (fidanzata) tra le ragazze del paese. Le funzioni domenicali, le processioni, le sagre paesane (che degeneravano in sassaiole contro i foresti che venivano a smorosare), la mietitura del grano, la vendemmia, i fàlò invernali erano le occasioni d'incontro tra i due sessi.
Qualche settimana prima di sposarsi i due giovani andavano a farse noìzhi, in altre parole a fare le pubblicazioni. Nel frattempo, un sarto stimava la dote della sposa: la biancheria, l'armàro (il cassettone) e il pajòn de scartòzhi (il pagliericcio che fungeva da materasso). La stagione più adatta per i matrimoni era l'autunno, specialmente a San Martino, al termine dei raccolti, con il vino nuovo, il pollame per la festa e qualche disponibilità in più.
Molti figli si sposavano in casa, ma a capo della famiglia rimaneva il padre. Era lui che trattava gli affari, che decideva cosa seminare, quando vendere il raccolto, cosa comprare.
Parimenti, nei confronti delle nuore era la madre che teneva el méscolo in man (il paletto per girare la polenta), che governava la casa.
Come si nasceva in casa, così si moriva in casa. La sera il vicinato si riuniva nell''abitazione del morto per recitare il terzhéto, la terza parte del rosario. Tutto il paese si fermava per andare a l'óbito (al funerale) e qualcuno sussurrava al vicino: "El gà finéo de tribulare" (ha finito di faticare, di soffrire). I parenti maschi in segno di lutto portavano per sei mesi sul risvolto della giacca un bottone nero o un nastro scuro, mentre le donne si vestivano completamente di nero; le vedove dovevano "tenere il lutto" per almeno un anno.
Il ciclo dell''anno
L'agricoltura è un'attività legata più d'ogni altra alle variazioni del tempo e all'andamento delle stagioni. Il contadino era quindi sensibile ai fenomeni meteorologici, nel tentativo di prevedere il tempo, perchè la tera bisogna laorarla coando che la ciama (la terra bisogna lavorarla al momento giusto). Anche la luna ha le sue influenze. In calar de luna se travasa, se semena el formento, se fa su el mas-cio, se mete i ovì soto la cioca in modo che i puldìni i nassa in te la luna che cress, in altre parole: in calar di luna si travasa il vino, si semina il grano, si mettono a covare le uova in modo che i pulcini nascano mentre la luna cresce. In cressere de luna se mete ìa i cavalieri (si mettono a riposo i bachi da seta) e se sèmena l'aio in te la luna de genaio (si semina l'aglio durante la luna di gennaio). Il lunario pi&uagrave; diffuso era il Pojana, l''almanacco di Giovanni Spello che, attaccato dal contadino sull''interno della porta della stalla o della cucina, riportava per tutto l''anno le previsioni dei tempo legate alle fasi della luna, il calendario delle feste, delle fiere e dei mercati settimanali.
La perturbazione atmosferica più temuta era la grandine, che nel giro di qualche minuto poteva distruggere il frutto di un anno di lavoro. Contro la tempesta erano accese le candele benedette, esposte le croci delle rogazioni e bruciato l''olivo della domenica delle Palme.
Il tempo dell'attività contadina era misurato su un calendario popolare, scandito dalle feste dei santi. "Bon principio dell''anno, bon dì e bon anno, bone feste, bone minestre, boni capponi, boni bocconi..." auguravano i bambini passando di porta in porta il mattino dei primo dell''anno, sicuri di ricevere il bujèlo: ''na brancà de nosele (una manciata di noccioline), un pugno di farina gialla o qualche soldo. Il due di gennaio si festeggiava S.Bovo, protettore degli animali, e la sua immagine era appesa sopra la porta della stalla. La notte prima dell''Epifania (6 gennaio), i bambini appendevano le calze al camino, per ricevere dalla Befana bajìji, caròbole, stracaganasse (arachidi, carrube, castagne secche) e forse un mandarino.
In gennaio, i lavori della terra erano sospesi, ma dopo i "giorni della merla" (intorno al 29 gennaio), se il freddo si allentava, s'incominciava a vangare e a bruscare (potare). Il due di febbraio, si celebrava la festa della Purificazione della Madonna, detta anche Candelòra o Seriòla dalle candele, che erano benedette durante la cerimonia, mentre il giorno dopo si chiedeva a S. Biagio la protezione contro il mal di gola. Non bisognava illudersi che l''inverno fosse finito: a la Seriòla gh'ín vole on caro a la bestíola (ci vuole ancora un carro di fieno per animale). Intanto, a Carnevale allegre comitive di maschere la sera giravano per le famiglie per ricevere frìtole, grustolì e favète (frittelle, crostoli, favette).
Il primo di marzo, era festeggiato accendendo grandi falò di ginepro che bruciavano scoppiettando e lanciando faville o con s-ciochi de carburo (botti con il carburo), mentre con il bati marso un gruppo di burioni "maritava" qualche ragazza tra lazzi e percussioni di bandòti (bidoni). Il 25 marzo, la fiera agricola della Madonna attirava a Lonigo torme di contadini. Nella domenica delle Palme, erano benedetti ramoscelli d'olivo adorni di "colombine" costruite con il midollo bianco del fico. Il tempo era incerto, tanto che se non piove in te le palme, piove sui uvi (se non piove alle Palme, piove a Pasqua); e comunque no ghe xe venare santo al mondo che la luna no gabia fato el tondo (la luna piena cade sempre nella settimana Santa). In aprile, si zappavano i piselli ed entro S. Marco, il 25, si seminava il granoturco, perchè se piove el dì de San Marco, vìen fora granturco anca da on sasso (se piove il giorno di San Marco, si ricava polenta anche da un sasso) e inoltre a San Marco, la polenta meda in tera, meda in t''el saco (a San Marco, il granoturco è mezzo in terra e mezzo nel sacco). Iniziava la stagione dei cavalieri (bachi da seta), che coinvolgeva tutta la famiglia per un paio di mesi. Nei tre giorni precedenti l''ascensione, erano fatte le rogazioni: il prete con i chierichetti passava per le contrade recitando le tanie (litanie) e benedicendo i campi: "A fulgore et tempestate, libera nos Domine".
A maggio, i lavori nei campi si facevano sempre più pressanti: co' canta el cuco ghe xe da fare da par tuto (quando canta il cuculo c'è da fare da per tutto), ma la sera la religiosità popolare si manifestava nei fioretti, cioè nella recita del Rosario in chiesa o davanti ai capitelli delle contrade. A giugno, si continuava la zappatura dei granoturco, perchè co' te me vedì, zhàpame, co so' pì grando inc&oagrave;lzhame (quando nasco zappami e poi rincalzami), si proseguivano i trattamenti alle viti, si concludeva il raccolto delle ciliegie. Si festeggiava il Corpus Domini, S. Antonio del seghèto (il 13) e S. Pietro (il 29).
Luglio era il mese del gran caldo, delle cicale, ma anche della mietitura dei grano fatta a mano, che coinvolgeva uomini, donne e bambini. In campagna, vicino ai corsi d'acqua, erano coltivati meloni e angurie che poi erano venduti nella capanna di pali e frasche, il casotto dela melonara.
Le giornate incominciavano a rinfrescarsi a metà agosto: San Lorenzo (10 agosto) da la gran calùra, San Vincenzo (22 gennaio) da la gran freddura, tuti e dò poco i dura; bastava una pioggia per ricordare che l'estate stava finendo: la piova de agosto rinfresca el bosco. Il 15 del mese si festeggiava l'Assunta. Settembre era la stajòn de la polenta, perchè si raccoglieva il granoturco; s'incominciava ad arare le terre. L'otto settembre, festa della Madonna di Monte Berico a Vicenza, attirava in città schiere di pellegrini, che all''alba partivano dai nostri paesi, a piedi, con la sporta della merenda.
In ottobre (nella prima domenica, festa del Rosario, si mangiava l'arna, l'anitra) la vendemmia richiedeva la partecipazione di tutta la famiglia. Dopo la pigiatura dell'uva a piedi nudi, il vino ribolliva nel tino per qualche giorno e quindi era travasato nelle botti.
Per i Santi, primo novembre, il frumento doveva essere seminato: dai Santi tralo sui canpi, da San Martìn pòrtalo al molin' perchè a S. Martino (11 novembre) incominciava il nuovo anno agrario, si saldavano i conti, scadevano gli affitti, e qualcuno doveva fare sammartìn, cioè traslocare.
Il 25 novembre a Barbarano si svolgeva la fiera di S.Caterina, dove si potevano acquistare attrezzi agricoli, sgàlmare (scarpe con la suola di legno) e il nuovo lunario. Dal 2 dicembre dipendevano le previsioni meteorologiche per dicembre e parte di gennaio: Santa Bibiana, quaranta dì e una settimana. In questo mese si uccideva il maiale, la musìna (il saivadanaio) della famiglia.
La stagione agricola era in pratica ferma: la caliverna (brina) copriva i campi e il contadino lavorava sotto il portico o in stalla. Per Natale, si allestiva il presepio con il muschio e le statuine di gesso; per l'albero tradizione più recente si usava un bel ginepro.
Nelle sere da Natale all''Epifania, gruppi di giovani con una grande stella illuminata andavano per le contrade a cantare la stella, ricevendo in cambio un pugno di farina, un cotechino, qualche soldo. "Bona fine e bon principio" era l'augurio che chiudeva l'anno.